Qui di seguito un ricchissimo articolo che Lael Katharine Keen ha scritto sull’etica del tocco. Pur essendo un articolo che parla della qualità del tocco durante una sessione di Rolfing ® (l’Integrazione Strutturale insegnata dal Rolf Institute ®) quanto detto da Lael può essere esteso a qualunque trattamento in cui sia necessario toccare il cliente – le vare tipologie di massaggio, il Feldenkrais, craniosacrale, osteopatia – ma in generale a qualunque relazione di aiuto dove due persone s’incontrano. E forse molto di più ancora.

Il ruolo di operatore e di cliente, la loro relazione, la responsabilità di ciascuno, il concetto di confine, questi argomenti sono discussi con grande umanità.

Con l’autorizzazione all’autrice ho tradotto personalmente l’articolo dall’inglese facendo del mio meglio per rendere la preziosità del testo. Nel corpo dell’articolo troverete dei riferimenti talvolta molto specifici a elementi propri del mondo dell’Integrazione Strutturale (referenziata con il termine Rolfing) e dei suoi operatori (Rolfer ™ se diplomati dal Rolf Institute). La conoscenza specifica di questi elementi non preclude la comprensione del vero messaggio di quest’articolo il cui significato va ben al di là di questi aspetto.

Buona lettura!

L’Etica del Tocco

Di Lael Katharine Keen

Cosa è etico in una relazione di aiuto? Quando un tocco è etico?

Queste sono le domande che mi hanno accompagnato per trenta anni, dapprima mentre ricevevo Rolfing, più tardi come Rolfer e ancora più tardi come insegnante di Rolfing. Durante questo periodo ho visto, sperimentato, sentito di molte cose, e molte ne ho fatte, che adesso io credo non fossero etiche – una violazione del corpo e della psiche. Ho anche sperimentato, testimoniato e dato quella qualità di tocco pieno di rispetto e presenza che io adesso penso essere il primo più importante elemento che determina quanto profondamente il nostro lavoro possa arrivare ai nostri clienti

Quando parlo di etica, non mi riferisco ai più ovvi comportamenti professionali come la confidenzialità, il mantenere un adeguato confine sessuale, … mi riferisco a qualcosa che è molto più sottile e difficile da definire – che sottende un insieme di attitudini, coscienti o non, che informano il nostro modo di toccare.

Il Nucleo di Auto-Regolazione [1] e l’idea che l’operatore si fa dei bisogni del cliente.

Mentre m’interrogavo per comprende quale è la natura del tocco etico, sono stata aiutata dal concetto di quello che il dott. Peter Levine chiama il nucleo di auto-regolazione, ciò che per lui costituisce la profonda conoscenza istintiva del corpo e della sua capacità di autoguarigione.

Ognuno di noi ha una sapienza che vive nella propria carne, molto più profonda e infinitamente più saggia di qualunque cosa il nostro intelletto possa immaginare. Ci sono ragioni profonde che ci rendono quello che siamo, che si sia malati o sani, e la nostra mente cosciente, spesso, non le comprende. Ancora meno potrà comprenderle un “osservatore oggettivo” – che sia un dottore, un terapista o un Rolfer.

Ad esempio, un paio di spalle sollevate, curvate, potrebbero non costituire una struttura efficiente ma sicuramente rappresentano il modo migliore che, ad un certo punto, il nostro organismo ha trovato per difendersi da una situazione difficile. Ognuno di noi è arrivato al momento attuale con una sua combinazione unica di storia e struttura.

Nella saggezza innata del nucleo di auto-regolazione è custodita la conoscenza segreta che ci consente di rilasciare le tensioni croniche e consente al corpo di allungarsi, aprirsi e incarnare più Grazia e meno dis-agio.

Nessuno conosce meglio del nucleo di auto-regolazione come far rilassare le spalle e farle scendere così che possano diventare quel “giogo leggero” sostenuto dalla cassa toracica. Per noi, come Rolfer, imporre la nostra visione, le nostre tempistiche o il percorso che pensiamo sia giusto piuttosto che un altro vuol dire violare l’unicità del cliente. Il più delle volte questa violazione avviene con le migliori intenzioni da parte dell’operatore e non è notato a livello cosciente dal cliente. Questo non significa tuttavia che non sia accaduta o che non avremo a che fare con gli effetti di quel tipo d’interazione ogni volta che toccheremo il cliente.

Il tocco come dialogo piuttosto che monologo

Poiché il corpo/mente del cliente contiene tutte le informazioni di cui potremmo mai avere bisogno per aiutarlo/a, quando mettiamo il nostro tocco a disposizione del nucleo di auto-regolazione diventiamo i volenterosi aiutanti della saggezza più profonda del corpo. Per poterlo fare tuttavia dobbiamo essere in grado di sentire e sentire richiede che le nostre idee precostituite vengano messe da parte.

All’inizio di una sessione di Rolfing facciamo una breve intervista al cliente e una lettura del corpo per stabilire quali aree vorremmo trattare durante la sessione. Perciò, quando il cliente si sdraia sul lettino, abbiamo già un’idea di dove vogliamo lavorare e cosa vorremmo vedere succedere. Questo è, allo stesso tempo, la nostra più grande forza e la nostra più grande debolezza. E’ una forza perché utilizziamo la nostra visione e la nostra conoscenza del corpo per decidere su quali parti lavorare per ottenere i migliori risultati; ed è una debolezza perché ci predispone a pensare di sapere già qualcosa mentre in realtà non sappiamo ancora.

In definitiva è il corpo del cliente che ci dice ciò di cui ha bisogno e, per poter ricevere questo messaggio le nostri menti devono essere aperte e le nostre mani ricettive. Quando tocchiamo pensando di sapere ciò che deve essere fatto, non possiamo ricevere queste informazioni dal corpo.

Come fa il corpo a dire sì a una certa direzione o un certo contatto? Il tessuto scorre e si scioglie e danza con le nostre mani. Il tocco può essere profondo ma il movimento è facile. Come fa il corpo a dire no a una certa direzione o un certo contatto? Il tessuto resiste, ci respinge e si chiude davanti alle nostre mani. Cioè, se stai sudando e facendo fatica quando tratti, è quasi certo che non stai ascoltando il corpo, stai travolgendo e violando le difese del sistema.

Per essere etici, ogni qualvolta tocchiamo qualcuno ci dobbiamo ricordare che tutte le nostre capacità non possono portarci più in là della porta d’ingresso del mondo del cliente, là ci dobbiamo fermare e bussare e aspettare di essere invitati ad entrare.

Esercizio: Il tocco come un dialogo

Fare un’intera sessione Rolfing dove ogni tocco, ogni intervento, cominci con il porre le mani sulla parte del corpo del cliente che si pensa debba essere trattata e, senza fare nient’altro che sentire fino a che si sentano i vari tipo di movimento che già esistono in questo posto, pulsazioni, risposte al respiro, motilità … Poi si interviene all’interno di questo ritmo e in dialogo con questi movimenti che esistono già. Come cambia la qualità del vostro lavoro? Come cambia il modo in cui vi relazionate al cliente? E quello in cui il cliente si relaziona a voi? E la risposta del tessuto del cliente sotto le vostre mani?

Il linguaggio e l’oggettivazione del cliente

Le parole che usiamo per noi stessi, per i nostri clienti e nostri colleghi per descrivere quello che faremo durante una sessione di Rolfing, definiscono il modo in cui lo faremo, i parametri della relazione tra il Rolfer e il cliente e la qualità del tocco.

Ad esempio, il modo in cui enunciamo gli obiettivi della terza sessione, direttamente dalla ricetta che ho copiato diligentemente e studiato come studente di Rolfing: “Stabilisci una linea laterale” – “Costruisci lo spazio per fare funzionare la dodicesima costola e funzionerà” (Ida P. Rolf) Oppure, nella quarta sessione: “Crea spazio nel pavimento pelvico”.

Che cosa succede quando diciamo che stiamo costruendo spazio nel pavimento delle pelvi di qualcun altro? O creando spazio per la loro dodicesima costola? Qual è l’assunzione tacita che è sottesa alle parole che usiamo? Stiamo dicendo che siamo il costruttore, il creatore. E il cliente cosa diventa? Un oggetto. Materiale da costruzione al più.

Questo modo di parlare/pensare sfortunatamente è molto comune nella nostra comunità. Quante volte sentiamo frasi del tipo “Le ho aperto la gabbia toracica” o “…dopo che gli ho districato il diaframma e raddrizzato le gambe sembrava veramente in forma”? Ogni volta che usiamo un linguaggio che ci mette nel ruolo dello scultore, costruttore o ci rende la causa del cambiamento del cliente, in quel momento noi, per omissione, stiamo rendendo i nostri clienti degli oggetti e li stiamo relegando a uno stato meno che umano. E questo si riflette nel nostro tocco e nella nostra relazione con il cliente.

Esercizio: Sperimentare il modo in cui parlate del Vostro lavoro.

Quando parlate del lavoro provate a cambiare i pronomi da “io” a “noi”.  L’altra metà del “noi” è il vostro cliente. Perciò invece di “Ho aperto la tua gabbia toracica”, “Abbiamo aperto la tua gabbia toracica”. Se tu fossi il cliente come questo cambiamento di pronome ti farebbe sentire riguardo te stesso? Riguardo il tuo Rolfer? Riguardo la tua capacità di cambiare?

Quando lavori ascolta le parole che utilizzi mentre pensi a quello che stai per fare. Se ti ritrovi a pensare “sto per dipanare questo, sciogliere quello, raddrizzare quell’altra cosa” cambia le parole dentro la tua testa “Sto per aiutare a dipanare questo, aiutare quello scioglimento, aiutare quella cosa ad essere raddrizzata. Che effetti ha questo sul vostro tocco? Della vostra visione del cliente? La risposta del tessuto del cliente alle vostre mani?

Il cliente come mistero piuttosto che come oggetto

Qualche anno fa ho partecipato a un incontro annuale europeo e, in un’appassionata discussione se gli effetti del Rolfing fossero permanenti o meno, ho sentito un Rolfer assimilare il Rolfing alla idraulica. Disse qualcosa del tipo “Un idraulico va a scuola e impara come riparare le tubature. Il Rolfing dovrebbe essere così. Dopo essere andati a scuola di Rolfing dovrei sapere come aggiustare e dovrebbe funzionare ogni volta”

Grazie al cielo non si tratta di una scuola d’idraulica!  Io avrei cambiato tipo di lavoro molto tempo fa. Noi lavoriamo con essere umani, che sono entità ricche, complesse e non tubature!

Un esempio che immagino sia familiare alla maggior parte dei miei colleghi. Il cliente non è, per qualche ragione, disponibile al cambiamento che stiamo cercando di proporre. La nostra idea è quella di “aprire la gabbia toracica” ma le idee del corpo sono molto diverse. Può essere che dentro quella gabbia toracica serrata ci siano dei ricordi ed emozioni di qualche abuso del passato e la persona non ha il sostegno necessario o le risorse nella propria vita per poterle affrontare ora. O forse sono stati i loro sposi o genitori a spedirli da noi per essere “rolfati” e resistono al cambiamento a causa di un conflitto di potere con quel membro della famiglia. Quale che sia, la ragione non conta. Quando la persona, coscientemente o inconsapevolmente non è disponibile per affrontare il cambiamento: non cambierà. Li potremo trattare fino a farci cadere le nocche delle mani, possiamo utilizzare le più recenti tecniche biomeccaniche, possiamo metterci a testa in giù ai piedi del lettino, ma loro non cambieranno.

Non abbiamo il potere di cambiare un’altra persona.

I nostri clienti sono al di là della nostra comprensione. E, paradossalmente, quando ci ricordiamo di questo siamo molto più in grado di onorare il sostanziale mistero che rappresentano.

Tra i nostri poteri non c’è la capacità di cambiare un’altra persona. Ciò che è tra i nostri poteri è l’uso della nostra conoscenza e delle nostre mani, questi elementi assieme possono agire da catalizzatori del cambiamento che il cliente desidera. Abbiamo la capacità di aiutare il cliente a districarsi negli spesso ingarbugliati percorsi del voglio e del non voglio che sono dentro di loro e possiamo metterci a loro disposizione per il cambiamento che desiderano fare.

Il cambiamento avviene perché cambia la volontà del cliente. Noi siamo lo strumento che loro utilizzano. Il nostro ruolo come strumento/catalizzatore è reso al meglio quando mettiamo la nostra conoscenza a disposizione del nucleo di auto-regolazione e impariamo ad ascoltare il modo che il tessuto ha di dirci e no, e poi a rispettare quello che ci viene detto.

La differenza tra l’essere un Aiuto ed essere il Salvatore

Molti di noi (inclusa me stessa) siamo arrivati al Rolfing con il grande ideale di aiutare ad alleviare le sofferenze e per portare il potenziale di integrazione e trasformazione agli altri. Cosa c’è di sbagliato in questo? Nella mia esperienza, il desiderio di aiutare gli altri è sempre una lama a doppio taglio. L’aspetto altruistico, umanitario è presente e reale ma oltre a quest’aspetto spesso si annidano ragioni molto meno nobili. Essere in grado di “alleviare” il dolore di qualcuno è un grosso delirio di potere e dà una bella spinta all’immagine che ha di se stesso l’operatore. La personalità salvatrice trae molto del proprio valore dagli effetti positivi che è in grado di produrre sugli altri.

“Empowerment[2]” è una parola che sentiamo spesso qui al Rolf Institute. Speriamo che il nostro lavoro con il cliente non solo li aiuti ad avere una struttura più integrata, bilanciata ma che, durante il processo che attraversano con questo lavoro, imparino abbastanza su se stessi da riuscire a “mettersi a punto” da soli così da non essere dipendenti da noi per mantenere il contatto con il nuovo benessere appena trovato. Il modo in cui noi, come professionisti, ci relazioniamo ai clienti influenzerà molto quanto questi si prenderanno la responsabilità dei loro stessi cambiamenti e di quanto invece proietteranno la responsabilità su di noi. Quando il contratto tacito della relazione è che il Rolfer stia salvando il cliente (o lo stia aggiustando, o gli stia togliendo il dolore) allora i ruoli si polarizzeranno, da una parte il Rolfer onnipotente eroe e dall’altra parte il cliente oggetto impotente. Che sia il Rolfer a iniziare questo tipo d’interazione o che sia il cliente o siano entrambi, alla fine è il cliente a non ricevere il servizio che ha richiesto.

Un altro modo per dirlo è che, in una relazione dove il Rolfer stia agendo nel ruolo di colui che aiuta, il cliente è il focus primario. Il Rolfer è il compagno fedele di questo viaggio eroico del cliente (ringrazio Tom Wing e Heather Starson per questa metafora). Quando il Rolfer s’identifica nel ruolo di salvatore sono le sue brillanti capacità, o la sua missione di salvataggio del mondo che diventano il focus della sessione e il cliente è relegato nel ruolo di compagno di viaggio dell’eroico Rolfer.

In un workshop che ho condotto sull’etica del tocco in Brasile, ho messo assieme questo piccolo schema:

Il Salvatore

L’Aiutante (Assistente)

L’operatore è l’eroe Il cliente è l’eroe
Fa qualcosa al cliente Fa qualcosa con il cliente
E’ la visione dell’operatore che guida E’ il nucleo di auto-regolazione del cliente a guidare la sessione/intervento.
L’identità dell’operatore si basa sull’aggiustare il cliente L’operatore ha uno spazio dentro di sé che contempla il fatto che il cliente possa non stare meglio.
L’operatore ha bisogno che il cliente diventi migliore L’autostima dell’operatore resta intatta indipendentemente dagli effetti sul cliente

Paura della morte – L’ombra del guaritore

Recitare la parte del salvatore è una difesa che si trova spesso nelle professioni di “guarigione”. Quando sentiamo di essere la causa della guarigione del cliente, questo ci dà l’illusione di avere potere su di un’altra persona. È un passaggio piccolo e molto scivoloso che, dall’agire inconsapevoli di pensare di avere il potere di far star meglio il cliente,  ci può portare al ritrovarsi a pensare di essere in grado d’ingannare l’invecchiamento, curare le ferite o la senescenza nel nostro stesso corpo.

La fine del viaggio su questo piano fisico coincide con la fine del nostro corpo fisico. Moriamo tutti. Prima o poi questo corpo, che è il mezzo del nostro lavoro e con il quale ci identifichiamo, prima o poi ci abbondonerà. O, come disse una volta il mio collega Bill Smythe “Non importa quanto allineati riusciremo ad essere, alla fine moriremo lo stesso”. Questa consapevolezza è ereditata attraverso la nostra carne e, sebbene molti di noi non vi si intrattengano consapevolmente, questa vive dentro di noi. E’ sempre lì.

Per chi di noi ha un credo spirituale o abbia avuto il privilegio di essere presenti a delle morti luminose, l’immortalità dell’anima può essere un oggetto di fede. Tuttavia i nostri corpi temono la morte. Mostratemi una persona che dice di non temere la morte ed io vi mostrerò una persona che vive nell’illusione.

Un altro tipo di difesa, ampiamente diffuso nell’ambito della New Age consiste nella super-semplificata credenza che “ciascuno crea la propria realtà”. Quindi se sei malato o ferito c’è una relazione causa effetto molto rigida tra qualche attitudine interiore che necessita di essere corretta e la malattia fisica esteriore. La guarigione consiste semplicemente nel trovare il sistema di credenza che deve essere cambiato o l’emozione che ha bisogno di essere espressa, una volta che ciò avvenga il corpo lo confermerà ritornando al proprio stato di salute.

E’ una soluzione seducente e facile pensare di essere completamente responsabili dello stato di salute dei nostri corpi fisici e trasmettere questa credenza ai nostri clienti. Trovarsi di fronte ad una persona malata, con una perdita di capacità fisica fa paura perché ci mette di fronte alla nostra impotenza. C’è una parte di noi che sa che domani potrebbe toccare a noi e potrebbe accadere che qualcuno che amiamo abbia un incidente o resti paralizzato dal collo in giù o gli venga diagnosticato un tumore. La credenza di essere noi gli unici responsabili a creare la nostra realtà ci dà l’illusione di controllare ciò che in realtà non controlliamo. Sospinge l’onnipresente ombra della morte un poco più in là nell’oscurità dell’incoscienza.

Con ciò non intendo dire che non ci sia relazione tra ciò che ci affligge e il nostro modo di vivere le nostre vite, il modo di usare i nostri corpi e come gestiamo il nostro sistema di credenze e le nostre emozioni. Nel mio lavoro con il Rolfing, Rolfing Movement e Somatic Experiencing ho avuto l’onore di essere presente con le persone nel momento in cui contattavano quel posto dentro di loro dove pensieri, emozioni, simboli e la realtà fisica erano intrecciati. Tuttavia dire che possiamo sconfiggere la malattia e il dolore cambiando il modo di pensare è una grossa semplificazione che non rende giustizia al mistero che noi siamo. Gli strati più profondi del nostro essere, dove il corpo e la mente fluiscono assieme e non possono essere distinti uno dall’altro, non sono raggiungibili dalla corteccia celebrale.

Quel posto dove può essere realizzato il cambiamento nell’ordine della nostra realtà fisica non può essere raggiunto grazie alla volontà o al controllo. Lo raggiungiamo abbandonandoci e con l’accettazione. Quando penetriamo i nodi profondi del nostro essere e testimoniamo con compassione ciò che vi troviamo, una nuova alchimia emerge. Nel momento in cui osserviamo senza giudizio la struttura di questi luoghi diverse opzioni si rendono disponibili e il nucleo di auto-regolazione può fare emergere spontaneamente una nuova soluzione, e spesso questo è quello che accade. Analogamente idee preconcette o un desiderio caparbio di cambiamento sono due qualità che ci precludono l’accesso a quei livelli del corpo/mente/spirito dove la trasformazione può avvenire. E’ paradossale che nel momento in cui pensiamo di “creare la nostra stessa realtà” è proprio il momento in cui ci tagliamo fuori da questa possibilità.

Essere incarnati significa essere vulnerabili “ai colpi di fionda e ai dardi dell’oltraggiosa fortuna” e che un giorno cesseremo di essere incarnati. Questo è vero non soltanto per i nostri clienti ma anche per noi stessi. Ci vuole coraggio e un continuo rapporto con la nostra mortalità per essere veramente e profondamente presenti al dolore di un’altra persona. Ed è da questo stato di presenza compassionevole (com-passione: “soffrire assieme”) che la vera guarigione può emergere, una guarigione, vorrei aggiungere, che si realizza sia per il cliente che per l’operatore.

Confini e Trauma

Uno dei fondamenti di un tocco etico è il rispetto del confine dell’altro. E il tema dei confini è invariabilmente intrecciato con il tema del trauma.

Dei confini sani assomigliano alla membrana di una cellula. Sono permeabili selettivamente. Mantengono fuori ciò che è tossico per noi e lasciano entrare il nutrimento.

Il trauma influenza i nostri confini. La definizione che Freud dà di trauma è: “una breccia nella barriera protettiva che comporta un travolgente sentimento d’impotenza”. I dott. Peter Levine e Anngwyn St definiscono il trauma come un evento travolgente della vita.  In entrambe le definizioni il trauma è un parte della condizione umana. Ne siamo stati tutti toccati in un modo o in un altro.

Nei postumi di un trauma i nostri confini cambiano. Il posto in cui il trauma ha fatto breccia nella nostra membrana protettiva diventa come un buco nella percezione di noi stessi e della nostra integrità. Possiamo difendere questa breccia con tale forza che né la vita e le altre persone possano entrare in contatto con noi (confini rigidi) o questo buco può divenire una porta inconsapevolmente aperta attraverso la quale non abbiamo scelta o controllo su chi e cosa possa entrare (confini sconnessi). In entrambi i casi la nostra membrana selettivamente permeabile non funziona più come dovrebbe e questo causa un dolore immenso ad un livello emotivo e ad un livello puramente istintuale, fisiologico dove ci rendiamo conto che qualcosa non va nelle nostre capacità di sopravvivenza.

Come si possono riparare dei confini frammentati? Dall’interno. Ancora una volta questo è un compito del nucleo di auto-regolazione – il senso naturale d’interezza e salute che è intrinseco di tutti gli esseri viventi.

Come Rolfer possiamo stimolare il nucleo di auto-regolazione del cliente o lo possiamo reprimere. Spesso, senza nemmeno volerlo fare, finiamo col passarci sopra e farlo nascondere. La nostra attenzione ai confini del cliente è un fattore decisivo fondamentale per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra.

Molto spesso, quando i confini di qualcuno non sono intatti, questa persona incoraggerà gli altri a danneggiare il proprio confine ulteriormente. Questo incoraggiamento potrebbe essere tacito o piuttosto esplicito. Nel Rolfing, si manifesta spesso soffrendo in silenzio mentre l’operatore lavora profondamente nell’area che causa al cliente il disagio emotivo o fisico. Potrebbe anche manifestarsi con il cliente che chiede una pressione maggiore e più profonda nell’area del corpo dove il tessuto ci respinge o dove sentono dolore.

Quando rispettiamo il “no” che il corpo del cliente ci dice, creiamo le condizioni opportune per far sì che il nucleo di auto-regolazione sia stimolato a cominciare il suo lavoro di riparazione del danno. Allo stesso modo, quando ignoriamo questo messaggio la tendenza che ciò crea è di far dissociare ancora di più il cliente dal proprio corpo e dal loro senso di se stessi come unità.

I confini e il dolore

Il dolore è un confine. E’ il modo che il corpo ha di dire “troppo veloce”, “troppo profondo”, “troppo presto” e una serie di altri messaggi di questo tipo. A volte, significa semplicemente “no”. In risposta alla teoria che il Rolfer non è la causa del dolore ma che il dolore è già dentro il corpo del cliente, penso sia importante notare che quando noi lavoriamo in un area dove c’è dolore non ha importanza che fosse già lì o che si sia noi la sua causa. Il dolore significa che siamo arrivati ad un confine. Rispettiamolo.

Nel gli anni ‘60 quando ricevetti i trattamenti per la prima volta, il mio Rolfer mi diede un asciugamano di mordere quando il dolore fosse diventato troppo. Feci più di un buco mordendo quell’asciugamano. Sì, le mie gambe si raddrizzarono e allora pensai che fosse valsa la pena subire quello che sperimentai come una violazione. Adesso, negli anni ’90, penso che ciò che sentivo come una scelta netta allora – nessun dolore, nessun beneficio – fosse semplicemente una mancanza di opzioni. Se avessi potuto scegliere di cambiare ricevendo rispetto per i miei limiti, questo sarebbe quello che avrei scelto. Effettivamente ho notato più e più volte, nel mio corpo, ricevendo delle sessioni, e nel corpo dei miei clienti che stavo trattando, che quando il dolore è percepito come un confine e rispettato come tale, il cambiamento è più profondo e il cliente partecipa maggiormente a quel cambiamento.

Esercizio: I confini e il dolore

Cosa accade quando conduciamo tutta una sessione di Rolfing senza mai oltrepassare la soglia del dolore del cliente? Questo mette in crisi le vostre credenze sull’efficacia del lavoro? Quelle del cliente? Come cambia il vostro lavoro?

I confini ed il tocco

Nei 25 anni che sono stata parte della comunità di Rolfing, ho sentito spesso parlare di lavorare con l’intento, o, in altre parole, immaginare che la nostra energia stia fluendo attraverso le nostre dita nel corpo del cliente per influenzare un certo cambiamento strutturale. Ho lavorato in questo modo per anni e non ho mai pensato di metterlo in discussione fino a che, nei miei studi di Somatic Experiencing, non ho cominciato a ricevere informazioni molto specifiche sull’importanza di rispettare i limiti.

I confini del corpo fisico sono molto netti. Nel punto dove le nostre dita incontrano la pelle del cliente, scopriamo dove noi finiamo e loro iniziano. Cosa succede allora quando proiettiamo la nostra energia attraverso la loro pelle giù attraverso strati di muscoli e tessuti e organi per raggiungere una specifica struttura? Abbiamo messo la nostra energia nel cliente. Non stiamo più stimolandoli ad auto-regolarsi, abbiamo invaso i loro confini e li abbiamo resi degli oggetti.

Un altro mito che fluttua nell’aria in alcune cerchie di guarigione e che, di tanto in tanto, si è fatta strada nella comunità Rolfing è l’idea che “diventare un tutt’uno con il cliente” sia uno stato desiderabile. Peter Levine, in anni recenti ha offerto una distinzione tra ciò che lui chiama fondersi e congiungersi. Fondersi è lo stato nel quale perdiamo i nostri confini energetici e il senso di noi stessi come separati dal cliente. Possiamo viaggiare così  lontani con loro nelle torsioni e nelle curve del loro corpo/essere che non ci ricordiamo più chi siamo. Quando insegno Rolfing riesco sempre a dire quando uno studente si sta fondendo con un cliente, perché anche dalla parte opposta della stanza, vedo i loro petti collassare, le loro teste disconnettersi dal resto della spina dorsale ed è come se i loro corpi cadessero appena verso il loro cliente. Quando ritrovo me stessa a fondermi con un cliente (ancora succede!) di solito me ne accorgo perché mi sento stordita e disorientata. Congiungersi d’altra parte è uno stato in cui siamo simultaneamente presenti a noi stessi e ai nostri stessi corpi e con il cliente. Uno stato in cui sappiamo dove finiamo noi e dove cominciano loro.

Non dobbiamo mai sottostimare l’effetto che abbiamo sui nostri clienti quando proiettiamo il nostro intento nei loro corpi o ci permettiamo di fonderci con loro. Alcuni anni fa, uno psicoterapeuta chiamato Nan Narboe venne al nostro incontro annuale e tenne una conferenza sui limiti nel contesto psicoterapeutico e come questi si relazionassero al Rollfing. Una tra le molte interessanti considerazione che fece, fu che in una sessione di Rolfing ci sono una persona svestita e sdraiata ed un’altra persona vestita che sta in piedi, e che questo setting, di per se stesso, è già molto carico di emozioni e di significato. E’ una situazione nella quale la persona svestita e orizzontale è sia vulnerabile (nel regno animale esporre il proprio ventre è spesso un atto di sottomissione) e molto probabilmente sta creando una proiezione di tipo genitoriale o di autorità sul Rolfer. E’ una situazione dove ogni svista da parte del Rolfer avrà un impatto amplificato sul cliente e dove la posizione del Rolfer come esperto, e come figura verticale vestita, potrebbe rendere difficile per il cliente esprimere ogni senso di violazione che possa percepire. Pertanto, se il Rolfing apporterà dei benefici, come spesso fa, il cliente potrebbe ignorare un altro sentimento, meno tangibile, di qualcosa che potrebbe non essere andato del tutto bene durante il trattamento.

Lo stato che Bill Smythe chiama risonanza somatica è il fondamento energetico per mantenere la nostra integrità quando lavoriamo con un’altra persona. La Risonanza Somatica è un po’ come il fenomeno della vibrazione per simpatia in uno strumento a corde, le corde vibrano quando la stessa nota è suonata da un altro strumento. Allo stesso modo, quando stiamo lavorando e all’improvviso ci ritroviamo a sospirare esattamente assieme al nostro cliente che ha avuto un rilascio spontaneo nel proprio corpo, di solito è perché siamo in risonanza somatica con loro. La risonanza somatica non deve essere confusa con la fusione. La risonanza, per definizione, ha bisogno di due persone.

Quando lavoriamo con un tocco confinato siamo al di fuori del sistema del cliente. Il nostro tocco può impostare un cambio nella direzione ma saranno i loro corpi ad orchestrarlo. La relazione che si stabilisce è un’alleanza terapeutica. Sia il Rolfer che il cliente sono ricaricati ed empowered.

Quando tocchiamo e restiamo ai margini, strati di movimento e informazioni emergeranno alla superficie per dialogare con le nostre mani. Se riusciamo a sostenere l’attesa, le informazioni si presentano da sole; non serve andare in profondità per cercarle. Toccando la pelle, possiamo sentire le forme e le strutture sottostanti, e la nostra pressione può cercare quella con la quale lavorare. Quando la struttura che desideriamo influenzare è contattata da una pressione dall’esterno, stiamo ancora lavorando profondamente nel corpo ma non stiamo facendolo entrando con la nostra energia. Il corpo del cliente si stimola da solo in risposta ad uno stimolo che arriva dalla pelle.

La differenza che questo tipo di tocco può fare è enorme. Da un momento all’altro, invece di aprirci un varco per produrre un cambiamento, ci ritroviamo a testimoniare un cambiamento per il quale abbiamo fatto da catalizzatori – un cambiamento che molto spesso è molto più esteso di quanto avessimo previsto. A questo punto, la nostra visione di Rolfer e la nostra comprensione della struttura diventa l’aiuto che ci dice dove toccare per stimolare il nucleo di auto-regolazione nel modo più efficiente.

Effettivamente, trovo, più e più volte, che contattare semplicemente una persona dall’esterno e rimanere semplicemente là senza penetrare energeticamente in loro, è una interazione talmente insolita che i loro sistemi attiveranno enormi cambiamenti, dal livello più puramente energetico al livello più propriamente strutturale. Quanto spesso ciascuno di noi incontra qualcuno che non abbia già una agenda predefinita o alcun presupposto o alcun intento d’invasione? Semplicemente incontrarsi. C’è qualcosa di estremamente potente e trasformativo in questo tipo di incontro.

Esercizio: Il posto dove noi finiamo e loro cominciano

Fate una sessione di Rolfing con un amico o un collega o qualcuno con cui vi sentite a proprio agio sperimentando. Quando li toccate sentite la vostra pelle nel punto di contatto. Questo tende a mantenere la vostra energia/intenzione dentro il vostro proprio contenitore. Poi provate il contrario. Sentite la loro pelle al punto di contatto. Questo tende ad aprire un “varco” dove l’energia/intento fluisce nel loro corpo. Che differenza notate? Che differenza notano loro?

Conclusione:

L’etica è un argomento sfaccettato. Essere un operatore Rolfing etico, o un qualunque operatore in una relazione di sostegno/aiuto è una professione da sviluppare in continuazione e c’è sempre da imparare/approfondire. Proprio nel momento in cui pensiamo di avere capito, invariabilmente ci si presenta un nuovo strato delle nostre stesse contraddizioni e di mancanza di comportamento etico. Non è un segno di fallimento ma piuttosto un indicatore del fatto che continuiamo a crescere e diventiamo consapevoli di livelli sempre più sottili.

Quando tocchiamo un’altra persona, abbiamo le mani su un Mistero Vivente. Non potremo mai conoscerlo e questa è la gioia infinita e il fascino di questo lavoro. Ho fatto del mio meglio in quest’articolo per condividere le domande e le sorprese che hanno formato il mio percorso in questi ultimi venti anni. Spero che tutti i miei anni a venire di questo lavoro serviranno solo ad approfondire la mia capacità di cadere nel “non sapere” che è la base che ci consente d’incontrare realmente un altra persona.

Riconoscimenti

Molte delle idee che ho condiviso in quest’articolo e molte delle intuizioni che ho avuto sono una diretta conseguenza dei miei studi di Somatic Experiencing e Somatic Traumatology con i dott. Peter Levine e Annqwyn St. Just. Ho fatto del mio meglio per menzionarli quando li citavo direttamente ma la loro influenza va ben al di là delle poche volte che sono citati in questo articolo.

Il Copyright di quest’articolo appartiene a Lael Katharine Keen, 1999. E’ stato pubblicato per la prima volta in: Rolf Lines, Spring 1999 (Disponibile e Pubblicato dal Rolf Institute). Lo si può trovare in Inglese presso questo indirizzo http://www.somatics.de/artikel/for-professionals/2-article/104-the-ethics-of-touch.

L’articolo è stato pubblicato sul sito www.rolfmi.it per gentile concessione della autrice.

Per cortesia non riprodurre il testo originale senza l’autorizzazione dell’autore (lael@fastlane.com.br).

“Rolfing” is a registered service mark of the Rolf Institute of Structural Integration, Boulder, Colorado.


[1] Ndt: Nel testo originale Self-Regulating Core

[2] NdT: Non credo esista un corrispondente italiano che esprima con la stessa forza questo termine che si riferisce allo sviluppo del proprio potenziale facendo emergere le proprie risorse interne. Vedere anche qui.